I tumulti di un'anima fragile e
malata che fatica a vivere pur desiderando farlo intensamente. E
poi i colori e le forme di un talento artistico straordinario,
esploso in soli 10 anni di attività, non compreso nella sua
epoca eppure destinato a conquistare il mondo per i secoli a
venire. Sarà un percorso artistico-emozionale quello proposto
dalla grande, attesa mostra dedicata a Vincent van Gogh,
organizzata da Arthemisia e allestita dall'8 ottobre a Palazzo
Bonaparte di Roma. Curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca
Villanti, la mostra presenta al pubblico 50 capolavori
dell'artista provenienti dal Kröller-Müller Museum di Otterlo,
esposti nella Capitale fino al 26 marzo 2023. "Esiste una
componente umana che arriva subito, van Gogh era una creatura
dolorosa piena di disperazione, che soffriva la vita ma voleva
viverla": così la curatrice Maria Teresa Benedetti spiega
all'ANSA i motivi che rendono van Gogh probabilmente il pittore
più amato di sempre, anche dal pubblico che non ha alcuna
conoscenza dell'arte, "era senza amore, senza denaro, ma pieno
di un talento unico che è riuscito a esprimere in soli 10 anni:
alla gente piace la sua sensibilità forte, anche quando rivela
le sue componenti più oscure". Quello che la curatrice definisce
"il percorso di un'anima", viene a Roma raccontato in modo
puntuale, seguendo le tappe della vita del pittore (proprio in
occasione alla vigilia dei 170 dalla nascita, avvenuta in Olanda
il 30 marzo 1853) parallelamente a quelle dell'evoluzione
stilistica: quindi non solo gli episodi salienti della sua
parabola umana (gli attacchi di follia, i lunghi ricoveri
nell'ospedale psichiatrico di Saint Paul in Provenza, il
rapporto col fratello Theo nelle celebri lettere, fino al
suicidio con un colpo di pistola al petto nei campi di Auvers)
ma anche le fasi della pittura, dagli scuri paesaggi della
giovinezza allo studio sacrale del lavoro della terra, dai
numerosi autoritratti (come l'Autoritratto a fondo azzurro con
tocchi verdi del 1887, presente in mostra) fino al cromatismo
metafisico della fine (come Il Seminatore realizzato ad Arles
nel giugno 1888). "Non è stato facile costruire questa mostra,
le questioni economiche sono rilevanti con un artista di questo
livello", racconta Benedetti, "abbiamo messo al centro la sua
vicenda umana: il periodo olandese durato 5 anni fino al celebre
'mangiatori di patate', un quadro che viene irriso perché
rappresenta dei contadini e che in una Parigi protesa verso
l'impressionismo appariva poco interessante. Poi c'è il periodo
parigino durato meno di 2 anni, in cui van Gogh resta se stesso
anche di fronte agli influssi del neo impressionismo di Signac e
Seurat. Da lì la fuga verso il sud, con Arles e la ben nota
vicenda vissuta con Gauguin. Il rapporto tra di loro frana
rapidamente, Gauguin vuole partire e van Gogh lo insegue col
rasoio e infine si taglia l'orecchio. Con quel tragico episodio,
van Gogh capisce di essere malato e si consegna al manicomio,
dove può comunque dipingere la natura, la terra che ama, i
colori". Nel suo saggio critico lei ha citato Francis Bacon, che
in merito allo stile di van Gogh parla di 'realismo
reinventato'. "Sì, perché van Gogh non si allontana mai dalla
realtà, parte da lì, dai contadini, dai tessitori, dalla natura,
ma nello stesso tempo quella che dipinge non è una realtà
oggettiva, per intenderci, come invece quella di Zola",
prosegue, "la sua partecipazione è grandissima, il mondo è
reinventato alla luce di una sensibilità particolare. L'artista
vuole rimanere attaccato alle cose, ma nutre il realismo di
componenti simboliche". Questo appare evidente anche nell'uso
personalissimo del colore. "In principio van Gogh usa il colore
scuro, il nero, che percorre con vibrazioni luminose", prosegue,
"poi però cambia, scopre pienamente la luminosità
dell'impressionismo e il colore lo attrare. Ad Arles vi si
immerge completamente, rendendo il cromatismo dominante".
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