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Responsabilità editoriale di Advisor
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La crisi energetica sta generando una nuova forma di frammentazione che si potrebbe definire secondo Alessandro Tentori, chief investment officer di AXA Investment Managers Italia una frammentazione 2.0.
La crisi energetica ha generato in Europa nuovi “vincitori” e “vinti”. In primis il vincitore numero uno della crisi energetica è senza dubbio la Norvegia, che ha già scalzato la Russia come primo fornitore di metano del Vecchio Continente. Ma anche l’Olanda (che pure resta un importatore netto di gas) sta beneficiando della situazione grazie alle vendite alla Germania. Senza dimenticare la Spagna che è molto meno legata al gas russo rispetto al resto d’Europa, possedendo un buon numero di rigassificatori (sei nel totale della penisola iberica) e solidi contratti di forniture con l’Algeria. Tra i perdenti c’è invece l’Europa dell’Est ma anche la Finlandia, senza dimenticare Germania e Italia.
«La “frammentazione 2.0” energetica porta con sé un’ulteriore frammentazione politica dell’Europa - continua Tentori - che stiamo già vedendo per esempio nei contratti siglati in perfetta autonomia dal premier ungherese Viktor Orbán con Gazprom, proprio mentre la Russia chiude i rubinetti del North Stream al resto d’Europa». Non è quindi una sorpresa che l’Unione si presenti disunita anche sul tema del tetto al prezzo del gas. Attenzione poi alle conseguenze inaspettate del possibile “price cap” al gas, meccanismo complesso e di non facile implementazione, che equivale - secondo l'esperto di AXA IM Italia - a una forma di razionamento dell’energia.
Non propriamente un dilemma facile, in particolare in quei Paesi (come l’Italia) dove si sta per votare. A proposito di elezioni, l’Italia che va alle urne il 25 settembre al momento non sta agitando troppo Bruxelles. Sono altri i problemi che attanagliano in Bel Paese. Primo fra tutti la sostenibilità del debito italiano a cui vengono a mancare due pilastri fondamentali: il Quantitative Easing e i tassi d’interesse a zero.
"Gli ultimi dati sulla buona crescita del Pil tricolore non devono illuderci - sottolinea Tentori - perché sono legati al fortissimo stimolo fiscale messo in campo da Roma e Bruxelles, superbonus compresi. In poche settimane ci potremmo trovare con una situazione esplosiva, perché il Pil sta rallentando, la Bce non compra più titoli di Stato (anzi sta alzando i tassi) e il costo dell’energia si è impennato a livelli che costringono l’industria italiana a tagliare la produzione o a interromperla. Se l’inflazione durante l’inverno dovesse spingersi intorno al 12-15%, rischiamo di avere un serio shock sui consumi, con pesanti ricadute sull’economia".
A mostrare plasticamente le future difficoltà dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare, è un dato cruciale: quello della differenza tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo. Mentre negli Stati Uniti il differenziale in luglio si aggirava intorno al 7% e in Gran Bretagna al 12% (quindi a livelli tutto sommato in linea con le medie storiche di periodi come gli anni Settanta), in Europa sta sfiorando la cifra record del 30%, con il nostro Paese addirittura al 37,5%. Come uscirne? "Un differenziale così alto tra prezzi alla produzione e al consumo va giocoforza smaltito - spiega Tentori - ed è possibile farlo solo in due modi: erodendo i profitti delle imprese o spalmando gli aumenti sui consumatori. Oppure una combinazione di entrambe le cose. Questo rende una recessione molto più probabile in Europa che negli Stati Uniti".
In generale quindi il Vecchio Continente è molto più fragile degli Stati Uniti sia sul fronte dell’approvvigionamento di materie prime che su quello della sicurezza energetica. Dopo il brusco risveglio legato alla guerra in Ucraina, per fortuna l’Europa sta cercando di irrobustire il suo assetto economico. Ma ci vorrà tempo. Per giunta la debolezza dell’euro, arrivato alla parità con il dollaro, sta rendendo molto più costosi gli acquisti di materie prime come gas e petrolio (che sono denominati in dollari).
Come muoversi quindi in tale scenario? Costruire un portafoglio diversificato è un’impresa davvero complessa. Il problema è la forte correlazione tra le varie asset class, con azionario e obbligazionario che si muovono ormai a braccetto: da inizio anno l’indice Fixed Income Global Aggregate (bond) ha perso oltre il 16% e il Msci World (azioni) circa il 18%1 . In un momento di alta volatilità come questo è difficile trovare un’asset class che ribilanci il portafoglio. "L’unica che funziona è il dollaro - conclude Tentori - in continua ascesa in scia alla sorprendente resilienza dell’economia statunitense. Mentre l’euro, al contrario, riflette la fragilità del Vecchio Continente: in tutto il mondo solo lo yen giapponese ha fatto peggio della moneta unica nel cambio con il dollaro".
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