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La parola della settimana è SIMBOLO (di Massimo Sebastiani)

Redazione ANSA

Sono stati mesi in cui si è fatto spesso ricorso all’espressione ‘foto simbolo’. La si è usata per gli Europei, per le Olimpiadi, per l’Afghanistan. L’immagine dell’abbraccio tra Vialli e Mancini, fratelli del gol nella Samp degli anni ’90 e poi di nuovo insieme a costruire il miracolo della Nazionale che ha vinto il campionato d’Europa; quella degli altri fratelli, dell’atletica italiana, a festeggiare a Tokyo avvolti nella bandiera tricolore successi a dir poco inaspettati; e infine quella del bambino messo in salvo nelle mani di un soldato al di là del filo spinato all’aeroporto di Kabul.

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Che cosa è un simbolo? E’ una cosa potente, che addirittura può cambiare il mondo? E’ quello che dice il protagonista di ‘V per vendetta’, il film di James Mc Teigue del 2005 tratto da un celebre graphic novel e che ha come protagonista un personaggio misterioso con il volto sempre coperto dalla maschera di Guy Fawkes, l’esponente più famoso della Congiura delle polveri che tentò di far esplodere la Camera dei Lord a Londra nel 1605. Una maschera – ne abbiamo già parlato qui – resa celebre dall’organizzazione Anonymous e da tante manifestazioni di protesta nel mondo che l’hanno adottata, come per esempio Occupy Wall Street. O è invece una cosa poco rilevante, anche se magari importante per una singola persona, come quando diciamo che si tratta di una cosa solo simbolica? L’etimologia del termine stavolta è interessante e ci aiuta a capire il singolare cammino compiuto dalla parola.

L’origine è greca (da questa origine deriva il latino symbolum) ed è il verbo sunballo, formato da sun, insieme, e ballo, getto, col significato di ‘mettere insieme’. Ma mettere insieme cosa? Due parti diverse che, in quanto si richiamano l’una con l’altra, in quanto si ricongiungono, hanno un certo significato. Nella Grecia antica si trattava di due metà di un oggetto che veniva spezzato per poi essere ricomposto ed essere così un segno di riconoscimento. Il termine symbolon in greco antico era la tessera di riconoscimento o anche la tessera hospitalitatis utilizzata da due famiglie o anche due città come sugello di un patto sottoscritto: era proprio il combaciare delle due parti ad essere prova dell’accordo raggiunto (e accordo è infatti un ulteriore significato del termine). Da qui anche il problema, se così si può dire, del termine simbolo, che in molti casi può confondersi con segno. Perché alla base sembra esserci la stessa funzione di ‘stare al posto…’ cioè significare qualcos’altro.

Ci viene in aiuto uno dei nostri compagni di viaggio ormai abituali in questa esplorazione delle parole, Georg Wilhelm Friedrich Hegel: la differenza sta nel fatto che tra il segno e ciò che rappresenta, dice Hegel nell’’Enciclopedia delle scienze filosofiche’, c’è indifferenza e convenzionalità: il segno può anche richiamare la cosa che deve indicare (per esempio nella figura di un cartello stradale) ma fondamentalmente è cosa diversa dal contenuto che esprime. La forza del simbolo invece dipende dal fatto che ha sembianze e contenuto che sono in analogia con ciò che vuole simboleggiare. E’ così che acquistano potenza straordinaria: pensiamo al simbolo di un partito, che spesso è oggetto di contesa, alla bandiera per indicare una nazione, un popolo (la si ostenta o, nella furia collettiva e ostile, la si brucia), o appunto a quel bambino afghano citato all’inizio per indicare il futuro e la libertà di un popolo. Per questo qualcuno ha parlato addirittura di ‘violenza del simbolo’ che è qualcosa di più profondo, di più viscerale, si potrebbe dire, di tutta quella famiglia di riferimenti verbali, oggi tanto usati, come ‘emblematico’ o ‘iconico’.

Anche quando usiamo espressioni come status symbol o sex symbol: che infatti rimangono attaccate in modo tenace all’oggetto e alla cosa cui si riferiscano a meno che non perdano forza e diventino soltanto, nel migliore dei casi, segni dei tempi.

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