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(di Luciano Fioramonti)
- ALBERTO MATTIOLI, GRAN TEATRO
ITALIA (Garzanti, 16 euro, 192 pp)
''Siamo diventati italiani perché abbiamo avuto il teatro d'
opera. Abbiamo inventato questo modo tipicamente nostro di fare
drammaturgia, uno specchio gigantesco davanti al quale ci siamo
noi, che ci racconta per quello che siamo e non come vorremmo
essere''. Sbagliato parlare di tempio. I palcoscenici intorno ai
quali si è radicata la tradizione del melodramma per gli
italiani sono stati molto di più: il luogo in cui la comunità si
ritrova, come la piazza o la cattedrale, il fulcro della vita
non soltanto musicale ma anche mondana, sociale e civile.
Parola di Alberto Mattioli, giornalista e critico musicale, che
in Gran Teatro Italia, appena uscito da Garzanti accompagna il
lettore in un viaggio molto particolare e coinvolgente da Milano
a Siracusa.
''In un Paese disunito dove ogni trenta chilometri cambia
tutto, dal cibo ai dialetti, il teatro d' opera è uno dei pochi
interessi condivisi, comuni, davvero nazionali e anzi
nazionalpopolari, ma in ogni luogo in maniera un po' diversa. Il
teatro accomuna l' Italia lasciandola divisa'', ha detto a
Mantova presentando il volume al Festival di Musica da Camera
'Trame Sonore' che fino al 4 giugno coinvolge 350 strumentisti
in 150 concerti.
Guardando i singoli teatri, riflette con l'ANSA, esce l'
immagine di una Italia ancora disunita, che poi è anche il suo
fascino, un paese policentrico, con tante piccole capitali e
con un modo di fruizione teatrale completamente diverso. ''Il
pubblico della Scala, ad esempio, si è autoinvestito della
missione di tutelare la sacralità dell' opera nelle memorie
verdiane e ha questo atteggiamento direi perfino bigotto nella
difesa a oltranza della tradizione. Il pubblico romano, oggi
molto vivace dopo anni di appannamento, nonostante sia nella
città papalina, è estremamente laico, non ha pregiudizi: se gli
piace applaude, altrimenti fischia o addirittura se ne va. Il
pubblico emiliano è ancora capace di esplosioni di entusiasmo e
di furore difficilmente replicabili''.
Nel ricostruire le origini dell' opera in musica, Mattioli
ricorda la data ufficiale del 6 ottobre 1600 a Firenze con
Euridice, libretto di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri,
anche se la prima opera sembra sia stata una Dafne degli stessi
autori rappresentata due anni prima. La palma di primo vero
capolavoro va a L' Orfeo di Claudio Monteverdi andato in scena
nel 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova. A Venezia, nel 1637,
aprì invece il primo teatro d' opera pubblico al mondo, il San
Cassiano, che oggi non esiste più. Cominciò da allora la fortuna
di una invenzione esportata in tutto il mondo. ''L' opera -
sottolinea l' autore - diventa un architrave dell' immagine
italiana, l' idea dell' Italia come Paese del Bello e del
Buono''. E pensare che, a differenza di quanto avvenne all'
estero, i teatri italiani erano stati progettati soprattutto per
passarci la serata, farsi vedere e stare insieme. La stessa
ampiezza degli spazi comuni - foyer, gallerie, caffè - lo
dimostra. Si poteva addirittura entrare senza assistere allo
spettacolo. In platea si stava in piedi - ad eccezione del San
Carlo di Napoli -, le luci erano accese, le persone andavano e
venivano, il silenzio non era previsto. Fu Arturo Toscanini a
imporre regole rigide sul modello tedesco di Bayreuth.
Il teatro, comunque, accoglieva tutti senza distinzioni di
classe: l' aristocrazia nei palchi, la borghesia in platea, il
popolo nel loggione. Mattioli racconta con brio il ''miracolo
dell' opera italiana'', un teatro difficile ed elitario dove i
protagonisti cantano in un italiano che nessuno parlava e molti
non capivano, in forme musicali complesse che ''diventa però
patrimonio comune per colti e ignoranti, ricchi e poveri''. Una
passione per tutti che continua a provocare entusiasmi,
stroncature e polemiche. Come quella di pochi mesi fa sull'
esibizione di Paolo Conte alla Scala, considerata una
profanazione dai puristi ai quali è stato ribattuto che in
passato il teatro milanese aveva ospitato cavallerizzi,
prestigiatori, acrobati e feste. ''L' idea che l' opera debba
essere il museo è abbastanza recente e non ha nulla a che vedere
con la vera tradizione del pubblico italiano, che è sempre stato
aperto e ricettivo alle novità. Il pubblico non ha sempre
ragione, come quando fischiò la prima della Traviata, ma alla
lunga capisce''. Il futuro, conclude, va verso il rilancio dell'
opera contemporanea e una diversificazione del repertorio ''nel
segno di una contemporaneità che non vuol dire soltanto mettere
Violetta in jeans ma cercare in quel passato le connessioni con
il nostro presente. E' l' unico interruttore che fa scattare il
clic della passione per l' opera''.
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